African-European Archaeology: cultura materiale e rivendicazioni sociali dei lavoratori africani di Rosarno (RC, Italia).


1. Introduzione

Questo contributo nasce dalla convinzione che per una piena e matura comprensione dei meccanismi che regolano le società contemporanee si debba riconoscere allo studio degli oggetti - e quindi all’archeologia, all’etnoarcheologia e ai cosiddetti material culture studies - un ruolo di pari importanza a quello delle più “normali” fonti di informazione, come le testimonianze orali, i documenti scritti, le fotografie e i filmati.
Inoltre, secondo l'esperienza della scuola di Stanford (http://archaeography.com/photoblog/about.shtml), proprio filmati e fotografie possono essere usati come una specie di fonte archeologica da utilizzare per lo studio degli oggetti.
Partendo dalle premesse esposte sopra, l’obiettivo di questa ricerca è quello di indagare le dinamiche sociali, comprese dei relativi esiti materiali, sviluppatesi tra il 2008 e il 2010 nella comunità di lavoratori africani di Rosarno (RC).
Lo studio si è articolato in due parti. La prima, più archeologica, si è soffermata sulla presenza, all’interno dei luoghi occupati dai migranti, di elementi riferibili al contesto culturale africano, costituiti da numerosi focolari a tre pietre utilizzati per scaldarsi e cucinare. La seconda, più antropologica, si è concentrata sull’organizzazione e sulle azioni attuate dai migranti in reazione agli affronti e agli attacchi che giungevano dal contesto locale.
Essendo questa una ricerca che non ha goduto di alcun finanziamento, non mi sono potuto recare a Rosarno; mancano dunque informazioni fondamentali, che sarebbero potute venire dall’incontro con gli stessi migranti. Ho quindi cercato di supplire con due interviste ed un fitto scambio di mail con Giuseppe Pugliese (Osservatorio sui Migranti di Rosarno) e Piervincenzo Canale (caporedattore del giornale on-line Africanews), che hanno svolto diverse inchieste su campo nei luoghi di permanenza degli Africani; numerose informazioni sono inoltre state riportate da Antonio Mangano su un libro di recente edizione.
Il tema dei movimenti migratori, apparentemente lontano dal target di una ricerca archeologica, è invece al centro di diversi filoni di ricerca, il più importante dei quali è costituito dalla cosiddetta African-American Archaeology, che ha tra i suoi obiettivi quello di studiare la diaspora avvenuta tra il Seicento e l’Ottocento dal continente africano verso l’America centrale e settentrionale.
Recentemente (estate 2010), l’archeologia è stata utilizzata per documentare il fenomeno migratorio in corso tra il Messico e l’Arizona, prendendo in considerazione gli oggetti rinvenuti nei luoghi di sosta dei clandestini sudamericani presso la frontiera USA (UCLA University, Los Angeles, Migrant Material Culture Project - Ethnoarchaeology of Undocumented Migration).


Hanno invece a che fare con i cosiddetti material culture studies i contributi contenuti in uno dei volumi della rivista Mobilities (Migrant Worlds, Material Cultures 2008), lo studio di Faida Abu-Ghazaleh sull’identità degli immigrati palestinesi negli USA e il progetto Migration and Material Culture, focalizzato sugli arredi domestici relativi alle etnie extraeuropee dell’Olanda contemporanea.
Gli studi che forse più di tutti si avvicinano al presente contributo sono costituiti dagli articoli pubblicati nel quinto volume dell’Annuario di Antropologia, dedicato al tema dei rifugiati e dei campi profughi.

Fig. 2. Campo profughi con focolari a tre pietre (Kenya)

2. Rosarno: arrivo, permanenza ed “espulsione” dei migranti africani

Come è noto, l’immigrazione nella piana di Gioia Tauro e di Rosarno è legata soprattutto alla raccolta delle arance, che avviene durante la stagione invernale.
Il flusso di lavoratori stranieri nella piana - così come nelle altre zone del sud Italia, ad esempio la Puglia, in quel caso legato alla raccolta dei pomodori - ha avuto inizio nei primi ani Novanta, con l’arrivo di cittadini provenienti dalla Polonia.
Ai polacchi si sono poi sostituiti gli Africani - maghrebini, ma soprattutto sub sahariani - divenuti la maggioranza della forza lavoro fino alla “rivolta” del gennaio 2010 (The Guardian, January 11, 2010), dopo la quale sono stati soppiantati dai Bulgari (inverno 2011).
Come racconta Antonio Mangano, il primo episodio di protesta fu quello del dicembre 2008, quando, a seguito del ferimento a colpi di pistola di un ventunenne ivoriano, gli Africani marciarono pacificamente per le vie di Rosarno, chiedendo il rispetto della popolazione locale e il miglioramento delle condizioni di vita.
Il 9 agosto 2009 una delegazione di lavoratori africani di Rosarno partecipò a Messina alla manifestazione contro la costruzione del ponte sullo stretto, rivendicando il diritto ad un regolare permesso di soggiorno.
In seguito ad altri episodi di violenza anche gravi, tra cui un nuovo ferimento a colpi di arma da fuoco avvenuto il pomeriggio del 7 gennaio 2010, diversi cortei di immigrati marciarono nuovamente su Rosarno, ingaggiando scontri con la polizia e con i residenti e causando diversi feriti da entrambe le parti; al momento non è stato chiarito il ruolo della ‘ndrangheta nella vicenda.
Il clima dei giorni successivi si fece più pesante (spedizioni punitive e gambizzazioni verso i migranti), tanto che le forze dell’ordine, che a fatica erano riuscite a tenere a bada la situazione, decisero di allontanare gli Africani, trasferendo i clandestini nei centri di identificazione ed espulsione di Bari e Napoli.
Il 31 gennaio 2010, le persone non avviate ai CIE hanno costituito a Roma I’Assemblea Lavoratori Africani di Rosarno (ALAR), con l’intento di regolarizzare la propria posizione e di ottenere il permesso di soggiorno.
Infine, è doveroso sottolineare come i rapporti con il contesto locale non abbiano avuto risvolti esclusivamente negativi; infatti, molti singoli e molte associazioni si sono adoperati per aiuti concreti (materassi, coperte, cibo, ecc.), dibattiti informativi e iniziative comuni.

3. Rosarno: esiti materiali della presenza africana

Gli esiti materiali della presenza africana non sono oggi più rilevabili, in quanto le aree di permanenza dei migranti sono state abbattute, bruciate o riqualificate.
I dati relativi alla cultura materiale, che scaricato dal WEB, sono costituiti esclusivamente dai filmati e dalle fotografie scattate in quei luoghi da giornalisti professionisti, reporter free-lance e membri di associazioni di volontariato locale.
Secondo quanto riferitomi da Giuseppe Pugliese dell’Osservatorio sui Migranti, i luoghi dove gli Africani avevano trovato alloggio erano costituiti dalla “Rognetta” di Rosarno (400 ragazzi), dall'ex Opera Sila (900 ragazzi), dai casolari della “Collina” di Rizziconi (650 ragazzi), dalla Cartiera sulla strada di San Ferdinando (bruciata nel luglio 2009) e da una decina di posti più piccoli; è stato ipotizzato come a fine 2009 nella piana di Rosarno fossero presenti circa 2500 immigrati, costituite da uomini tra i 20 e il 40 anni provenienti prevalentemente dall’Africa centrale e occidentale.

Fig. 3. La piana di Gioia Tauro (RC) e i siti occupati dai migranti. 1. La Rognetta 2. La Cartiera 3. L’Opera Sila 4. La Collina

Le fotografie riportate di seguito sono costituite da una serie di fermo-immagine - purtroppo di bassa qualità -relativi ai filmati caricati su youtube da Medici Senza Frontiere, da Rainews24, dall’associazione Rifondareggio, dai componenti di Stopndrangheta e dal Blog di Beppe Grillo.
Le immagini degli stabili dove hanno trovato rifugio gli Africani provengono invece da Google Earth, che nella sua funzione Street View consente di “visionare” numerosissime strade ed edifici situati in diverse parti del mondo.

La Rognetta (fig. 3; n. 1)

La Rognetta è una ex fabbrica per la lavorazione del succo d’arancia situata nell’immediata periferia nord di Rosarno.
Si tratta di un capannone di pianta quadrangolare (30mx60m) privo di tetto, luce, acqua e servizi igienici, in cui nel 2009 hanno trovato alloggio circa 400 persone, sistematesi sia nell’edificio che nel piazzale esterno.

Fig. 4. Panoramica esterna della Rognetta (RC).

Dalle immagini dei media, purtroppo di qualità troppo bassa per essere riportate qui, si potevano notare numerose tende e ripari costruiti alla meglio. Tra questi c’erano almeno sette focolari di “tipo africano” - costituiti da tre pietre disposte a 120° una dall’altra - situati sia all’interno che nel piazzale antistante l’edificio.

La Cartiera (fig. 3; n. 2)

La Cartiera - ovvero la ex Modul System Sud, nata per produrre telescriventi e bruciata nel luglio 2009 a causa di un incendio appiccato da persone estranee al circuito degli immigrati - si trova accanto alla statale che collega Rosarno al vicino paese di San Ferdinando. È formata da un grande corpo di fabbrica di pianta quadrangolare (80mX30m) a cui si affianca una piccola costruzione, anch’essa di pianta quadrangolare (30mx10m). Il tetto è presente, ma mancano luce, acqua e servizi igienici funzionanti.

Fig. 5. Panoramica esterna della Cartiera (RC).

La sistemazione degli Africani interessava prevalentemente l’interno del capannone, dove sono state realizzate due file di casette di cartone, all’esterno delle quali si potevano osservare almeno 17 focolari di “tipo africano”; fuori dall’edificio è stata rilevata la presenza di almeno altre 4 strutture di combustione del medesimo tipo.
Tra quelli individuati all’interno, sono due i focolari che dispongono di una documentazione fotografica sufficientemente accurata per essere utilizzata in questo contributo.
Il primo, dietro al quale ce ne sono altri tre, è costituito dalle consuete tre pietre e dalla presenza di legni piuttosto lunghi, infilati nel fuoco sono per la punta; il ragazzo che siede lì accanto sembra intento a cucinare (Fig. 6).

Fig. 6. Focolare a tre pietre, la Cartiera (RC).

Il secondo è del tutto simile al primo sia per la disposizione delle pietre che per l’utilizzo del legname, infilato poco alla volta nel punto di combustione (Fig. 7).

Fig. 7. Focolare a tre pietre, la Cartiera (RC).

Pur non essendo stati ripresi in primo piano, anche i quattro focolari esterni, seppure spenti, sono praticamente identici a quelli visti fino ad ora (Fig. 8).

Fig. 8. Focolari a tre pietre situati all'esterno della Cartiera (RC).

Di un certo interesse per questa ricerca è la presenza, su un muro della fabbrica, della scritta “FREEDOM AND JUSTICE”, realizzata utilizzando un pennarello (Fig. 9).

Fig. 9. Scritta “FREEDOM AND JUSTICE”, la Cartiera (RC).

L’Opera Sila (fig. 3; n. 3)

L’Opera Sila (ARSSA o ESAC) è uno stabilimento per la raffinazione dell’olio abbandonato da anni, situato sulla statale 18 che collega Rosarno a Gioia Tauro.

Fig. 10. Panoramica esterna dell'Opera Sila (RC).

L’area, dove hanno trovato rifugio 900 ragazzi, ospita alcuni grandi silos e una serie di cinque costruzioni (senza luce né acqua), la più grande delle quali è caratterizzata da una pianta quadrangolare di 70m x 30 m. Le immagini riprese dai mezzi di informazione hanno messo in luce la presenza di numerose tende e di ripari attrezzati in modo precario; i sistemi di riscaldamento e di cottura del cibo erano affidati prevalentemente a gas da campeggio o a piccole cucine economiche; per questo, forse, i focolari a tre pietre sono poco rappresentati, fatta eccezione per quello situato nel piazzale antistante agli edifici, su cui si trovava un grande calderone di metallo (Fig. 9).

Fig. 11. Calderone sospeso su un focolare a tre pietre, Opera Sila (RC).

Molto interessanti sono invece alcune scritte, realizzate su uno dei silos e sul muro esterno di un edificio. Nel primo caso si possono leggere “ONE LOVE” e “JAH GUIDE” (presumibilmente scritti da un ragazzo che dormiva lì dentro e che ha intonato una canzone reggae per le telecamere di un blog), rispettivamente i titoli di due note canzoni di Bob Marley e Peter Tosh (Figg. 12-13).

Fig. 12. Il silos per l’olio su cui si possono leggere i titoli delle canzoni di Bob Marley (ONE LOVE) e Peter Tosh (JAH GUIDE).

Fig. 13. Il ragazzo che abitava nel silos intona una canzone raggae per le telecamere, mostrando il medaglione verde/giallo/rosso dell’Africa.

L’altra scritta riporta la frase  “AVOID SHOOTINGS BLACKS. WE WILL BE REMMBER!WE NEWER FORGET THIS” (Fig. 14).


Fig. 14. La scritta “AVOID SHOOTINGS BLACKS. WE WILL BE REMMBER!WE NEWER FORGET THIS” su uno dei muri dell'Opera Sila (Foto I.Russo).

La “Collina” di Rizziconi (fig. 3; n. 4)

Nei pressi di due casolari abbandonati in località “la Collina” (alle porte dell’abitato di Rizziconi) hanno trovato posto circa 650 ragazzi, parte dei quali alloggiati in tende da campeggio all’esterno degli edifici. La documentazione fotografica che sono riuscito a recuperare è caratterizzata soprattutto da larghe panoramiche delle costruzioni, tanto da rendere impossibile l’individuazione di eventuali scritte o particolari relativi alle piccole sistemazioni architettoniche (come ad es. i focolari).

Nardò (LE)

Come testimoniano le immagini relative alle campagne pugliesi di Nardò, è interessante notare come la riproposizione di architetture africane in terra italiana non sia un fenomeno attestato esclusivamente a Rosarno. In questo caso i migranti provengono soprattutto da Sudan ed Eritrea e sono impegnati da maggio a settembre nella raccolta di angurie e pomodori.


Fig. 15. Particolare di uno dei focolari di Nardò (LE).

La figura si riferisce ad uno dei numerosi focolari a tre pietre realizzato tra le tende piantate in un campo di ulivi di Nardò (LE), nell’estate 2009. Anche qui il legname è costituito da lunghi tronchi infilati nel fuoco poco per volta.

4 African-American Archaeology, African-European Archaeology

Sull’onda del Movimento per i Diritti Civili sviluppatosi negli USA, l’African-American Archaeology si proponeva di affrontare il tema della schiavismo a partire da un punto di vista inedito: quello della cultura materiale.
L’archeologia riuscì a dare un contributo certamente più concreto e meno pregiudiziale della storiografia, dato che uno degli obiettivi principali che la nuova disciplina si proponeva fu quello di indagare i cosiddetti slave quarters, gli insediamenti in cui erano confinati gli schiavi neri della East Coast, di cui erano disponibili solo pochi documenti scritti e alcune immagini pittoriche.
Nel 1969 prese così il via il primo scavo - condotto nella Kingsley Plantation da Charles Fairbanks dell’Università della Florida - di una cosiddetta slave cabin, una delle caratteristiche dimore utilizzate dagli schiavi delle piantagioni di cotone e tabacco della Virginia e del South Carolina.
Il proseguire delle ricerche permise di mettere in luce come una parte del bagaglio culturale africano sopravvisse al trauma della deportazione andando poi ad interagire con la preesistente cultura degli Indiani e con quella quantitativamente marginale degli europei. Tutto questo fu facilitato dal fatto che in alcuni stati (es. South Carolina) gli Africani costituivano la netta maggioranza della popolazione e trovavano qui molte somiglianze con l’ambiente naturale d’origine (umidità, vegetazione rigogliosa, ecc.), tanto che le loro conoscenze pratiche risultarono utili e vincenti, facendo degli schiavi i veri pionieri di quella prima America selvaggia.
Secondo Leland Ferguson, le radici africane delle condizioni materiali degli schiavi sono ravvisabili soprattutto nell’architettura e negli oggetti di ambito domestico, sopravvissuti fino a metà Ottocento, quando la fine della schiavitù e il crescente flusso di merci occidentali indebolirono e soppiantarono la cultura materiale di tradizione africana. Si tratta di mortai per la macinazione dei cereali, di ceramica nota col nome di colono ware e dei focolari a tre pietre, spesso realizzati all’esterno delle slave cabins.
Se negli USA si parla di African-American Archaeology, perché non chiamare provocatoriamente col nome di African-European Archaeology il filone di studi, a cavallo tra Archaeology of the Contemporary Past e material culture studies, che si interessa della migrazione in corso tra il sud e il nord del bacino Mediterraneo?

5 Dinamiche di resistenza e di affermazione sociale I: il punto di vista immateriale

L’assenza di una vera e propria campagna di interviste rende impossibile delineare in modo chiaro ed approfondito le dinamiche sociali sviluppatesi all’interno delle aree occupate dai migranti. Tuttavia, gli elementi a nostra disposizione sono significativi e diversificati, tali da permettere di proporre alcune considerazioni.
Le nazionalità di provenienza dei migranti erano numerose (almeno una ventina) e riconducibili all’Africa centrale e occidentale. Gli individui erano giovani di sesso maschile tra i 20 e i 40 anni d’età che utilizzavano l’inglese per comunicare tra di loro.
Si tratta quindi di un quadro piuttosto frammentato, dove l’assenza di nuclei famigliari permette di escludere che la parentela, come invece accaduto in diversi campi profughi, abbia giocato un ruolo di primo piano.
Anche le questioni nazionali, secondo le interviste che ho realizzato a Pugliese e Canale, non hanno costituito un elemento di aggregazione o di divisione significativo. Più in generale, nei luoghi occupati dagli Africani la convivenza è stata piuttosto pacifica e civile e non si sono registrati episodi spiacevoli.


Fig. 16. La “Cartiera di Rosarno” festeggia l’arrivo delle coppe vinte al torneo di Catulonia (RC)
(da http://www.youtube.com/watch?v=uqcuomFEuDI&feature=related).

Sono invece emersi una serie di elementi ricollegabili ad un livello di comune e generalizzata coscienza della propria posizione di lavoratori irregolari, talvolta discriminati dal punto di vista razziale.
Gli episodi (descritti sopra) della marce di Rosarno e di Messina indicano come la cosiddetta rivolta del 7 gennaio 2010 non sia da considerare come un episodio estemporaneo e isolato, ma fanno invece pensare ad una lunga e complessa elaborazione della propria condizione, che ha poi trovato forma compiuta nella nascita dell’Assemblea Lavoratori Africani di Rosarno (ALAR).
Inoltre, si devono considerare le scritte di protesta, come “FREEDOM AND JUSTICE”, e di aperto confronto, come “AVOID SHOOTINGS BLACKS. WE WILL BE REMEMBER, dove quel “ci ricorderemo” suona quasi come una sfida.
Ci sono poi i riferimenti all’ideologia Rastafari: le scritte con i titoli delle canzoni di Bob Marley (One Love) e Peter Tosh (Jah Guide; Fig. 12), la canzone raggae intonata da un ragazzo alle telecamere di un blog (Fig. 13), e la frase “Respect Respect Rastaman” che un giovane grida al reporter di Africanews, mentre alza la coppa vinta ad un torneo di calcetto (Fig. 16).
Se la canzone One Love invita le persone ad unirsi e collaborare per il bene comune, Jah Guide si rivolge alla guida divina - Jah Guide, appunto - indicando la fede come la via da percorrere per resistere alle difficoltà e alle persecuzioni verso i neri. Per alcuni versi, infatti, il movimento Rastafari si è contraddistinto proprio per le prospettive di lotta contro le ingiustizie perpetrate ai danni della diaspora africana (Fig. 17).
Infine, i rapporti tra i migranti la comunità locale (che si è distinta per aver saputo saputo allacciare un dialogo con loro, portando ad azioni concrete di solidarietà continua; cfr http://www.facebook.com/group.php?gid=17372039969) hanno portato ad un reciproco riconoscimento, concretizzatosi nell’organizzazione di numerose serate informative, dibattiti e di un torneo di calcetto, svoltosi a Catulonia il 3 agosto 2009 e vinto dai “residenti” della Cartiera di Rosarno.

Fig. 17. A sinistra Bob Marley e Peter Tosh autori delle canzoni "ONE LOVE" e JAH GUIDE". In alto il ragazzo che all'Opera Sila intona una canzone raggae per le telecamere. In basso Hailé Selassié, al secolo Tafarì Maconnèn, Negus d'Etipoia.

6 Dinamiche di resistenza e di affermazione sociale II: il punto di vista materiale

Come si è detto nell’introduzione, gli studi sui rapporti tra migranti e cultura materiale hanno fino ad ora riguardato le grandi migrazioni storiche e contemporanee, quali ad esempio la diaspora irlandese o i flussi che dal mediterraneo portano verso l’Europa.
Il formarsi di grandi comunità di immigrati, come ad esempio la Berlino turca o la Marsiglia magrebina, hanno fatto sì che all’interno di queste si venisse a creare un microcosmo denso di richiami alla madrepatria, dove negozi “etnici” vendono cibi ed oggetti provenienti quei luoghi; in questi casi, è chiaro quindi che la cultura materiale della terra d’origine è legata all’importazione commerciale.
I luoghi dell’esclusione sociale, come ad esempio le zone industriali nei dintorni di Rosarno, sembrano invece aver costretto i migranti a produrre cultura materiale, che in alcuni aspetti si riferisce al contesto africano.
Dovendo assolvere ai bisogni primari, come cucinare e costruirsi un riparo, gli Africani hanno riutilizzato e assemblato oggetti in ferro, plastica e cartone, e, in assenza di gas da campeggio o di cucine economiche, hanno usato pietre e lunghi bastoni per realizzare i focolari a tre pietre, diffusissimi in tutta l’Africa centrale.
Un po’ com’è successo anche negli insediamenti degli schiavi neri americani, l’assenza di mezzi economici e la paradossale libertà d’azione, dentro spazi di reclusione forzata o indotta, spingono gli individui ad organizzarsi autonomamente, riutilizzando oggetti abbandonati e, in certi casi, attingendo alle proprie conoscenze artigianali.
In accordo con i material culture studies (cfr. supra), la cultura materiale va però pensata come una categoria strettamente correlata alla società che la circonda.
In questo casso, i processi che ruotano attorno al focolare sono due: la preparazione del cibo e lo svolgersi di piccole relazioni sociali, difficili da cogliere in assenza di una ricerca più approfondita (es. interviste).
Come è noto, uno dei pezzi forti della cucina africana sono i bolliti di carni e verdure; in realtà anche in Europa, perlomeno fino a non molto tempo fa, il bollito era un piatto piuttosto diffuso.
Entrambe le culture fanno ricorso a grandi recipienti di metallo dove cuocere gli alimenti in acqua, ma differiscono nel modo di disporli sul fuoco.
In Europa, prima dell’avvento delle cucine moderne, venivano usati dei pentoloni a tre piedi (che garantivano un ottimo equilibrio) e dei calderoni dotati di manico, che stavano sospesi sopra le braci, agganciati alla catena da camino (Fig. 18).

Fig. 18. Focolare a terra con calderone agganciato alla catena del camino (foto 1912, Ammerland, Bassa Sassonia, da Benker 1987)‏

In Africa è invece in uso il sistema del focolare a tre pietre, su cui vengono appoggiati i recipienti, che rimangono in perfetto equilibrio sopra il fuoco.

Fig. 20. Focolare a tre pietre, Tanzania
Fig. 21. Focolare a tre pietre, Tanzania

In relazione al modo di alimentare la fiamma, in Europa si è spesso fatto ricorso a legna di dimensioni contenute, mentre in Africa vengono utilizzati dei tronchi piuttosto lunghi, infilati nel fuoco poco alla volta; per questo motivo i focolari africani non possono essere costituiti da un circolo di pietre - che impedirebbe l’ingresso dei tronchi - ma devono essere dotati di aperture.
In assenza di interviste, non è chiaro quale fosse la dieta dei migranti e se il ricorso al focolare a tre pietre fosse legato al consumo di cibo bollito; in ogni caso, il tipo di focolare e di alimentazione della fiamma appaiono come un elemento riferibile al contesto culturale africano, riproposto tale e quale Rosarno.
Secondo alcuni, la cultura materiale si trova al centro dei processi di costruzione sociale (tra cui quello dell'identità), e, in particolari situazioni (ostili), può divenire la sede privilegiata della negoziazione o della resistenza rispetto alla cultura dominante. Come fa notare Mariassunta Cuozzo, diversi studi hanno messo in luce come le strategie di “resistenza materiale” si possano dividere in due casi.
Il primo è costituito da una dimensione quotidiana (che non comprende necessariamente il confronto diretto), attuata tramite forme di conservatorismo culturale o di rifiuto nell’aderire ai costumi della cultura dominante. A Rosarno sopravvivono i focolari a tre pietre e il modo di alimentare il fuoco, mentre ad esempio, nelle piantagioni USA si trovano gli stessi focolari, le slave cabins, i mortai per la macinazione dei cereali e la ceramica detta colonoware (cfr. supra).
Il secondo tipo di resistenza è invece più conscio e attuato quotidianamente in forma di lotta politica. In Calabria i migranti hanno inscenato manifestazioni, realizzato scritte antirazziste e si sono più volte riferiti all’ideologia dei Rastafari (cfr. supra); negli USA le azioni delle diverse componenti del Movimento per i Diritti Civili ebbero i risultati che tutti conosciamo.

7. Conclusioni

In sede di conclusione, vengono ripresi e sintetizzati gli elementi principali emersi sopra.

a.
I numerosissimi focolari a tre pietre rappresentano un segmento di “catena operativa” africana riproposto in Italia dagli immigrati sub sahariani.


b.
Quanto è stato detto a proposito di chi vive nei campi profughi - cioè che anche in situazioni molto difficili si vengono comunque a creare reti sociali e azioni politiche (cfr. Van Aken 2005) - vale anche per i luoghi occupati stagionalmente dai lavoratori clandestini.


c.
Gli elementi che alcune scuole di pensiero identificano come azioni di resistenza o di affermazione sociale si colgono a Rosarno sia dal punto di vista materiale che da quello immateriale. Al primo caso appartengono il sopravvivere e il riprodursi di elementi appartenenti alla cultura africana (focolari); al secondo i sentimenti di indignazione (graffiti e riferimenti al movimento Rastafari) e le azioni di protesta (cfr. ad es. la cosiddetta rivolta) contro lo sfruttamento, le violenze ed il razzismo.


d.
I numerosissimi episodi in cui migranti e cittadini di Rosarno si sono identificati rispettivamente come dignitosi lavoratori e generosi ospiti fanno pensare ad un elaborato e maturo processo di reciproco riconoscimento.


e.
Dal punto di vista più strettamente metodologico ed etnoarcheologico è possibile considerare come, per rispondere ai bisogni primari (un riparo e del cibo), gli individui che vivono una situazione di precarietà economica e sociale sono spinti ad occupare spazi marginali e a “produrre” cultura materiale, riutilizzando e assemblando oggetti abbandonati e facendo ricorso ad elementi che fanno parte del proprio background culturale (focolari).


f.
Infine, questa ricerca conferma come, in accordo con la scuola di Stanford, le immagini e i video possono essere utilizzati come un particolare tipo di fonte archeologica (http://archaeography.com/photoblog/about.shtml).
 
Ringraziamenti

Ringrazio vivamente Giuseppe Pugliese e Piervincenzo Canale  per le informazioni che mi hanno dato sulla vicenda dei Lavoratori Africani di Rosarno e per la solidarietà e il coraggio (non così scontati al nord, da dove scrivo) che hanno contraddistinto le loro battaglie ; Jacopo Zannini per le indicazioni bibliografiche.


Giuseppe Pugliese e i ragazzi di Africalabria Rosarno - Osservatorio Migranti

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